01 marzo 2015
«È UN VITIGNO CHE DEVE STARE SICURAMENTE TRA I PRIMI QUATTRO-CINQUE ASSOLUTI A LIVELLO NAZIONALE»
Una frase del genere, detta da un abruzzese come me, può sembrare uno slogan campanilistico. Se a pronunciarla è peròAttilio Scienza, il più noto ed autorevole esperto di ogni vitigno che abbia mai posato piede in suolo italico, allora forse qualche riflessione in più la merita.
Un recente seminario – organizzato insieme agli amici della delegazione AIS Castelli Romani – mi ha dato lo spunto per sistematizzare anni di assaggi, studi, confronti sul vino/vitigno a me più caro.
Il montepulciano d’Abruzzo è il secondo vitigno più coltivato d’Italia, con più di 35mila ettari sparsi in tutte le regioni della fascia centrale. Funge da base prevalente per tre DOCG (Colline Teramane in Abruzzo, Rosso Conero nelle Marche e Castel del Monte in Puglia) e per innumerevoli DOC e IGT. Insieme a chianti, prosecco e lambrusco è il vino più venduto nella grande distribuzione e il più esportato all’estero. Insomma, dovrebbero bastare i numeri a dimostrare che stiamo parlando di un protagonista importante del panorama enologico nazionale.
Non me ne vogliano gli amici delle altre regioni, ma, tranne rare eccezioni, il “nostro” ha proprio in Abruzzo la sua casa prediletta ed in questo aspetto può essere definito molto territoriale. Nella “regione verde” se ne contano circa 19mila ettari (il 60% dell’intera superficie vitata) con una produzione che, a seconda delle annate, si attesta intorno agli 800-900mila ettolitri. Le proprietà sono molto frammentate, suddivise in una miriade di aziende piccole e piccolissime: solo 1 su 8 ha più di 20 ettari e oltre il 60% di esse conta su meno di 5 ettari. Come contraltare, i tre quarti della produzione complessiva di vino provengono invece da 40 cantine cooperative, di cui 32 attive nella provincia di Chieti, che cuba da sola l’80-85% della produzione complessiva (seconda in Italia per quantità solo alla provincia di Verona).
Archiviata la storica diatriba con i vicini toscani (è stato dimostrato che non c’è alcuna relazione genetica tra l’uva abruzzese e il prugnolo gentile utilizzato nella zona di Montepulciano) sembra ormai assodato che il vitigno sia una delle tante uve a bacca rossa di origine ellenica, approdato da noi via mare dalle vicine coste della ex-Jugoslavia. In Abruzzo è acclimatato da più di due secoli e le prime testimonianze scritte risalgono a fine- Settecento/inizio-Ottocento, quando si parla di montepulciano già coltivato nelle zone interne della Valle Peligna e della Valle del fiume Pescara (Tocco da Casauria/Bolognano). Passato a parte, quel che conta è chequesto vitigno è oggi un “testimone” importante di una regione bella e troppo poco conosciuta, di cui in qualche modo racconta anche certe asperità, certe durezze che ne contraddistinguono la cultura e il clima, specie nelle aree più interne.
Il problema del montepulciano è il suo passato inglorioso di vino rustico, generoso, da “pronto soccorso”. E’ risaputo infatti che la sua ricchezza e la sua versatilità hanno contribuito a “salvare” diverse enologie di latitudini più nordiche. Smerciato facilmente in grandi quantità, il coro di coloro che ne hanno indagato seriamente le potenzialità qualitative è rimasto una voce di minoranza, senza riuscire ad inculcare nell’immaginario collettivo l’equazione montepulciano uguale grande vino rosso.
Oggi la consapevolezza dei produttori è senz’altro aumentata. L’imbottigliato è cresciuto a scapito dello sfuso e in particolare la produzione dell’area Doc è triplicata negli ultimi venti anni. Tuttavia, più del 50% della produzione è classificata ancora come semplice “vino da tavola” e una quota parte non trascurabile “vede” il vetro fuori regione . Commercialmente, sia in Italia che all’estero, il rosso abruzzese “tira”, ma il prezzo è il più basso dei vini doc in bottiglia (siamo intorno ai 2,50€ al pari del lambrusco – dato 2013 vini GDO). I premi della critica sono aumentati negli anni, ma in rapporto alla produzione siamo lontanissimi da regioni virtuose come Marche o Alto Adige. Negli ultimi tempi, infine, notevoli sono stati gli investimenti in immagine e comunicazione, ma questo tentativo di restyling ha avuto risultati altalenanti e ancora si fa fatica a far capire fuori regione le grandi potenzialità di questo vino e il perché di alcune “impuntature”, di certe “asperità”, che a noi abruzzesi invece emozionano.
Il fascino del montepulciano d’Abruzzo sta proprio qui: nell’essere un “gentiluomo di campagna” (espressione che ho preso in prestito da Francesco Valentini), capace di essere elegante e rude allo stesso tempo. Un vitigno con tante frecce al proprio arco e che, aggiustando la mira, può davvero ambire al ruolo di nuovo grande rosso d’Italia.
E’ molto amato da agronomi ed enologi per la sua relativa facilità di lavorazione, che lo porta a produrre quantitativi superiori rispetto ad altri grandi vitigni rossi (nebbiolo e sangiovese ad esempio) senza cedere nulla in termini di tono, struttura, fragranza e consistenza. La sua buccia ricca di pruina, polifenoli e antociani, spessa e consistente, lo rende più resistente di altre uve a malattie, muffe e colpi di calore. Amante di climi continentali, è un tardivo «vero» (in alcune zone è sovente vendemmiare a fine ottobre): trae beneficio, quindi, dal nuovo andamento climatico che gli consente sempre più spesso di raggiungere la completa maturazione zuccherina e fenolica, esaltandone la generosità e la finezza in prospettiva. Ha polifenoli e tannini nobili, che evolvono e polimerizzano facilmente negli anni, capaci di fondersi e ammorbidirsi, portando insospettabili doti di finezza, abbinata a potenza e longevità. E infine, cosa affatto trascurabile, ha nel nome una identificazione univoca col territorio (altri due soli casi in Italia ad alto livello, brunello di Montalcino e sagrantino di Montefalco). Un’accoppiata – quella vitigno/territorio – da esportare nel mondo e che da sola può fare brand, anche se purtroppo manca ancora nella mente del consumatore il passaggio da marchio a marca universalmente riconosciuta come di qualità, capace di portare sul mercato la “massa” e non solo le eccellenze.
Eppure di montepulciano buoni, per non dire ottimi, ce ne sono sempre di più. Non mancano – e purtroppo ne marchiano lo stereotipo più diffuso – i vinoni maturi/stramaturi/cotti, “assediati” dal rovere, figli di un’enologia e di una logica commerciale che non hanno ragione di esistere. Ma per fortuna tanti produttori, sia “storici” che di nuova generazione, perseguono in vigna uve più fresche, “leggere”, e in cantina procedure meno invasive, finalizzate all’ottenimento di vini più fragranti, succosi e leggiadri. Vini che esplorano e fanno propria la grande versatilità di questo vitigno, che, se trattato con intelligenza, lo porta ad esprimersi su livelli di eccellenza sia vinificato in rosato, che come vino quotidiano a tutto pasto, che infine come grande rosso da invecchiamento.
Sarò di parte, ma io un altro vitigno con queste caratteristiche non lo conosco!